mercoledì 30 marzo 2016

Cinderella unleashed: Un ultimo affondo

Ci sciacquiamo alla fontana mentre la guardia va a raccogliere alcune armi e  bloccare le porte delle camerate sotto il torrione, dove altri trenta soldati dormono ignari. Il paese è immerso in un silenzio irreale, si odono solo le fiaccole crepitare e l'acqua gocciolare giù dai nostri corpi - finché non sentiamo qualche urlo indistinto provenire dalla stanza dove abbiamo segregato i superstiti del ballo. Stanza senza uscite, ma con finestre: in breve, il parroco risponde loro con le campane, scandendo l'allarme razzìa dei predoni, che richiamerà le guarnigioni dei paesi vicini.

Non ci scomponiamo, sapevamo perfettamente come sarebbe andata a finire, e tutto sommato è meglio che finisca rapidamente, all'apice della gloria, nel momento di massimo eccesso, senza assedi o stillicidi. Il paese più vicino è a un'ora scarsa di marcia, giusto il tempo per rivivere nella nostra testa e assaporare a fondo quanto avvenuto, magari qualche minuto per aumentarne la portata.

E il parroco ci serve su un piatto d'argento l'opportunità, guidando al nostro cospetto gli anziani imbruttiti e timorati accorsi alla chiesa per salvarsi la cotenna, al riparo di una piccola croce intarsiata che ci brandisce contro a mò di spada, innaffiandoci di acqua dall'odore stagnante e apostrofandoci come streghe figlie di satana. La scena è ridicolmente patetica, e non può che farci scoppiare in irrefrenabili risate, metà nervose e metà sincere, di quelle che ti escono dallo stomaco e ti fanno lacrimare senza sosta. Mentre mi rotolo a terra, noto che la nostra amica guardia invece non ride per niente, anzi, ha la mascella contratta e tremante: riduce a passi fermi e lunghi la distanza fra sé e il prete, e lo colpisce sulla guancia con il piatto della sua picca d'ordinanza, mandandolo dritto carponi dopo due avvitamenti in aria; ed evidentemente il suo culo all'aria è un invito irrinunciabile, giacchè lo impala con la stessa picca in un'unico affondo, pianta i piedi a terra e lo issa in aria, grugnedo dallo sforzo mentre i denti gli scricchiolano e le lacrime gli offuscano la vista. Questa era personale, e un segnale per tutte noi, per ognuna di noi, singolarmente, unicamente, contemporaneamente. Ci alziamo. Mi alzo. Sono ancora scossa dalle risate mentre afferro un robusto piolo, mi dirigo verso la mia matrigna, presente fra la folla, e glielo calo con veemenza in mezzo al cranio che si apre in due fino al naso. Il legno scheggiato rimane incastrato fra i due lobi del cervello mentre lei crolla a terra, spasimante, tremante, incapace di urlare, ma ancora viva; e mi accerto che mi guardi negli occhi mentre le apro la pancia sopra lo stomaco, le squarto il diaframma, mi faccio strada con le unghie verso il cuore e glielo afferro in una morsa stretta, sempre più stretta, battito dopo battito, sempre più flebile, finchè i fremiti non smettono e i suoi occhi sono di vetro. Un contatto intimo che cancella ogni altra cosa intorno a noi, che gusto con gioia fanatica e pacifica.

Quando mi rialzo vedo che le mie sorelle hanno avuto momenti simili, ognuna con la sua personale nemesi, mentre gli altri se la davano a gambe. Una di loro mi si avvicina e mi bacia appassionatamente accarezzandomi con le sue mani ruvide sporche di sange - bacio che ricambio con tutta me stessa. Ci riuniamo tutte abbracciandoci e accarezzandoci, piangendo e ridendo, urlando e sussurrandoci parole di conforto. E' tutto finito, siamo finalmente leggere e pronte a partire.

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