venerdì 4 maggio 2012

L'Italia che arranca


(recuperato da un altro contesto, il post è di qualche mese fa - non che sia cambiato molto nel frattempo nello specifico, mentre in generale il clima è peggiorato e non accenna a schiarite)


Quando si parla del mondo del lavoro in Italia, fra gli innumerevoli problemi che popolano questa componente fondamentale della società peninsulare, ne spiccano a mio avviso tre in particolare: 


1) l'elevata età media dei partecipanti
2) l'esorbitante pressione fiscale
3) la bassissima percentuale di personale qualificato



Sappiamo infatti di essere un paese vecchio, composto da popolazione anziana; sappiamo che più della metà dei compensi, in qualsiasi forma siano scambiati, attraverso contratti a progetto, fatture, parcelle o buste paga, vengono risucchiati nel gorgo statale; forse non tutti conosciamo alcuni dati inquietanti riguardanti la formazione scolastica: secondo gli studi eseguiti dal linguista Tullio de Mauro, nel 2008 soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea; da una ricerca dell'UNLA (Unione Nazionale per la Lotta contro l'Analfabetismo) del 2005, quasi sei milioni di italiani sono totalmente analfabeti, rappresentando il 12% della popolazione contro il 7,5% dei laureati; senza alcun titolo di studio (o in possesso della sola licenza elementare) è invece il 36,52% della popolazione.


I tre punti di cui sopra, combinati, possono fornire un quadro delle dinamiche che ci relegano, nel settore informatico, in una sorta di Alto Medioevo al confronto dell'Europa d'oltralpe, degli Stati Uniti o delle economie trainanti dell'Asia.
L'elevato costo del lavoro rende difficile fornire salari appetibili, dimensionare correttamente i gruppi di lavoro, investire adeguatamente nella formazione - che nel settore informatico dovrebbe essere continua; più in generale, la formazione non viene assolutamente percepita come essenziale e fondamentale per chi pratica questo mestiere, né è stato compreso l'alto valore che riveste in termini di appagamento personale e professionale, forse a causa dell'evidente retaggio non-culturale pervasivo nella società italiana e simbionte dei gruppi dirigenziali attuali.


Ad oggi, lo sviluppo di software viene ancora comparato con le più classiche attività produttive industriali o manifatturiere, come se i prodotti di queste attività avessero qualcosa in comune; le aziende che prevedono risorse dedicate al collaudo degli applicativi si contano sulle dita di una mano; le relazioni fra fornitori di software e clienti sono ancora basate su contratti "chiavi in mano" anzichè su sinergie di lungo termine, proprio perchè il software viene visto come un prodotto da scaffale, qualcosa da poter comprare un tanto al chilo assieme al diritto di recesso, con le conseguenti immancabili diatribe del tipo "ma questo nel contratto non c'era", "ma io intendevo un'altra cosa", "ma questa modifica non è così stravolgente", "ma perchè dovrei sottoscrivere un contratto di assistenza e manutenzione". 
Se si parla di approcci Agili allo sviluppo e ai rapporti inter-aziendali, la cui conoscenza all'estero è ormai un prerequisito per l'assunzione alla pari di ambienti di sviluppo o linguaggi di programmazione, qui in Italia si viene ascoltati con interesse e contestualmente dimenticati, per poter continuare a vivere nella dissociazione e nel rifiuto della realtà del proprio rapporto con il software, che è di collaborazione, evoluzione, cambiamento e adattamento; il fruitore/compratore persevera invece nel mantenimento di atteggiamenti passivi ("il programma funziona così quindi mi adatto"), quando questi non evolvono nel ruolo di "parte lesa" nel rapporto lavorativo; la comunicazione fra i due lati della barricata è frammentaria, tenuta in scarsa considerazione, avviene matematicamente oltre i limiti ragionevoli di tempo (solitamente qualche ora prima, se non durante, importanti presentazioni o rilasci), e limitata al cosa deve fare il prodotto senza affrontare il come, il che porta inevitabilmente ad ottenere soluzioni insoddisfacenti entrambi le parti.
Infine, la dolentissima nota riguardante la formazione: chi la pratica spesso lo fa per proprio conto e per proprio interesse personale e professionale, non supportato dall'azienda, prassi che genera col tempo impiegati-dinosauri imprescindibili e insostituibili operanti su tecnologie in disuso e/o deprecate dal resto del mondo, che affrontano qualunque problema con gli unici strumenti loro conosciuti indipendentemente dall'opportunità del loro utilizzo nel particolare ambito, avulsi dal contesto globale di evoluzione e confronto dialettico e pratico; a volte si ripiega nell'on-the-job training quando risorse con conoscenze ignote al resto del team riescono a convincere l'ambiente al cambiamento e a svolgere il lavoro di formatori sul campo, con tutti i rischi del caso.


Per concludere: migrate gente, migrate all'estero; e prima lo fate, meglio è per la vostra professionalità e la vostra soddisfazione (sessantamila hanno scelto l'Australia lo scorso anno, per esempio).